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Politiche sociali e disabilità: leggi e criteri da riscrivere

Politiche sociali e disabilità: leggi e criteri da riscrivere

Nel resto d’Italia appena l’8 per cento dei disabili ricorre alla legge 162 mentre in Sardegna la percentuale sale al 40 per cento (38 mila i piani personalizzati finanziati nel 2013 a fronte di 123 nel 2000). Una riflessione di Marinora Di Biase, CGIL regionale.

Giovedi 08 Gennaio 2015
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Politiche sociali e disabilità: leggi e criteri da riscrivere
Domande di sostegno in aumento, il 40 per cento chiede piani personalizzati
di Marinora Di Biase*

Fonte: Altrasardegna, dicembre 2014


In un periodo di crisi economica e di tagli al sistema pubblico è determinante rilanciare la programmazione sociale, per definire una rete di servizi, strutture e prestazioni, che siano in grado di garantire la qualità dell’offerta, i livelli essenziali

di assistenza e, contemporaneamente, la creazione di lavoro professionale e stabile. Dalla Giunta Regionale ci aspettiamo una seria rivisitazione delle politiche sociali: solo con una seria programmazione si può infatti coniugare l’esigenza di una spesa oculata, che superi sprechi e diseconomie, e al contempo, garantisca una crescita del sistema di welfare, omogeneo nel territorio regionale, efficace e appropriato nelle risposte ai bisogni, capace di creare buon lavoro e nuova ricchezza. In particolare, vorremmo che fosse affrontato con un approccio diverso il tema della disabilità, non come condizione permanente, ma come situazione di uno svantaggio da superare rispetto al contesto. Si tratta di dispiegare azioni che siano in grado di aggredire i fattori (culturali, scolastici, motori, lavorativi, sportivi, sanitari, abitativi) alla base dello svantaggio, modificando il contesto negativo in cui la persona è inserita. Un’azione a tutto campo, di tipo globale, mirata all’integrazione dei sistemi.

Tale intervento necessita di una programmazione globale, che oggi non viene praticata, nonostante la legislazione nazionale e regionale sulla disabilità, sia orientata in tal senso. In sintesi possiamo dire che la legge regionale numero 23 del 2005, sicuramente un’ottima legge, attende di essere applicata pienamente. È una battaglia che dobbiamo fare a livello regionale, ma anche nei territori, negli enti locali, nelle Asl. Interazione, integrazione, approccio globale,

servizi compiuti, centralità del territorio e soprattutto centralità della persona, che diviene parte attiva nel superamento dello svantaggio: queste sono le parole chiave per affrontare il tema. Altrimenti la risposta al bisogno si tradurrà,  come spesso accade, in un atto riparatore, in risarcimento incerto nei tempi e nella modalità, in monetizzazione del disagio, che rasenta il pietismo, l’assistenza fine a se stessa, generando nelle persone interessate dipendenza invece che autonomia.

L’handicap grave in Sardegna viene affrontato con i piani personalizzati, sulla base della legge nazionale 162 del ‘98 e di quella regionale numero 2 del 2007 sulla non autosufficienza. Gli invalidi in Sardegna sono 120 mila, gran parte sono molto anziani. C’è da chiedersi: come vengono costruite le schede di valutazione per definire le persone con handicap grave, piuttosto che quelle non autosufficienti? Perché la legge sulla non autosufficienza non viene adeguatamente finanziata? Chi decide di indirizzare un cittadino verso una risposta, piuttosto che verso un’altra, e sulla base di quali elementi? Conta la diversa entità finanziaria dell’aiuto previsto dalle diverse misure? Pesa il fatto che si prevede un cofinanziamento di enti locali e famiglie con una misura, la non autosufficienza, e non invece con un’altra? Siamo convinti che una modalità di valutazione che nasca dalla concertazione tra i diversi attori del territorio, eviterebbe errori e ingiustizie. Perciò chiediamo all’assessorato alla Sanità di modificare la situazione attuale. Le richieste di intervento sono in continuo aumento e mentre nel resto d’Italia appena l’8 per cento dei disabili ricorre alla legge 162, in Sardegna la percentuale sale al 40 per cento (38 mila i piani personalizzati finanziati nel 2013 a fronte di 123 nel 2000). La responsabilità va trovata certamente nella mancata integrazione tra servizi sociali e sanitari. Ecco perché è urgente una programmazione, per costruire un welfare locale di tipo comunitario, dove tutti i soggetti che operano nella sanità, nei servizi sociali, nei servizi al lavoro, nel sistema scolastico, nei trasporti, possano incontrarsi e interagire, mettendo in campo un sistema integrato di servizi alla persona, certo, esigibile, efficace e di qualità.

Servirebbero più strutture, più servizi, e di qualità, innovativi, un sistema pubblico e privato in cui la Regione deve svolgere il ruolo di programmazione, controllo e supporto. Il primo strumento utile è sicuramente la formazione professionale, rivolta al personale per una seria qualificazione e definizione delle professioni necessarie. Poi è indispensabile l’istituzione degli albi delle professioni tipiche del lavoro socio-sanitario, anche per garantire l’applicazione dei contratti collettivi di lavoro. Insistiamo dunque sulle riforme: il Piano sociale regionale, l’istituzione della Consulta regionale per le politiche sociali, la definizione chiara degli ambiti di intervento della legge sulla non autosufficienza e di quella per l’handicap grave, con la dovuta distinzione tra le due tematiche e le relative poste di bilancio.

Quanto detto, a nostro avviso avrebbe ricadute positive anche sulla spesa sanitaria, perché buone politiche sociali liberano anche il sistema sanitario da interventi e carichi impropri, molto più costosi. Altre questioni rilevanti da affrontare sono le politiche del lavoro e l’inserimento dei disabili. La legge regionale numero 20 del 2002 ha previsto l’istituzione del Fondo per l’occupazione dei disabili diviso tra le Province. Nella precedente legislatura era stato quantificato in un milione ottocentomila euro, trasferiti regolarmente, per tirocini formativi, assunzioni a tempo determinato e progetti speciali. Purtroppo la programmazione del Comitato per il Fondo,

in questo caso abbastanza puntuale nelle misure e negli incentivi alle aziende, non si è tradotta in una crescita dell’occupazione, per responsabilità precisa delle Province, che hanno lasciato la maggior parte delle risorse inutilizzate. Ora crediamo sia il caso di riprendere il filo di questi interventi, perché non è accettabile che per l’inerzia delle amministrazioni vadano sprecati soldi pubblici e vanificate importantissime occasioni di lavoro per le persone svantaggiate.

*Marinora Di Biase, segretaria regionale CGIL

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